Da quando l’attuale pandemica COVID-19 ha sbaragliato gli assetti socio-economici planetari, si moltiplicano le previsioni e gli scenari degli urbanisti, architetti e sociologi che immaginano e anticipano una nuova quotidianità. Il futuro delle città è la campagna.
"Non so perché la modernità non sia più di moda”
esclamavano le parole della scrittrice Irène Némirovsky. Erano gli anni venti.
Un secolo dopo l’infinito dibattito sul divario tra città e campagna, tra cosmopolitismo urbano e ruralismo agrario, tra cambiamento cittadino e immobilismo contadino rifiuta ogni dualismo retorico confermando un nuovo modo di abitare allo stesso tempo diffuso e capillare. Ce lo hanno insegnato il Covid e la rete.
Renzo Piano, cita segretamente Francesco Indovina e immagina “una città diffusa dove tutto in un modo o nell’altro è fertile”, un’unica città vasta quanto l’Europa, invisibile perché mista di abitazioni sparse, piccoli centri abitati, campagne coltivate e foreste. L’archistar Rem Koolhaas proprio in piena pandemia ha inaugurato al Guggenheim di New York la mostra “Countryside: The Future” che getta un occhio a scala globale sul quel “regno ignorato” che è proprio la campagna. Non si tratta più di una visione nostalgica del paesaggio bensì di un resoconto dettagliato di questo territorio ibrido, innovativo e da troppi decenni inesplorato dall’architettura -secondo Rem- quasi esclusivamente focalizzata sulla città. Troy Conrad Therrien, curatore della mostra fa appello alla riscoperta della campagna contro il retaggio ideologico del Countrysiding, ovvero contro la convinzione dell’inadeguatezza dei territori rurali.
A prendere le difese della campagna ci ha pensato Sébastien Marot, filosofo francese e critico di architettura e urbanistica che nel 2020 ha curato la mostra “Taking the Country’s Side. Common trajectories in agriculture and architecture” in cui queste due scienze convergono in un unico tema progettuale dimostrando a più riprese l’indissociabilità della campagna dalla città.
Non si tratta soltanto di abitare in campagna.
Si tratta di ripensare la cultura architettonica in funzione di un rapporto simbiotico con l’ambiente.

L’architettura dovrà favorire la biodiversità e gli architetti penseranno l’abitare del domani imparando dalle regole dell’ambiente. Ad esempio la permacultura, combinando architettura, biologia, selvicoltura, agricoltura e zootecnia offre un insieme di pratiche mirate a progettare spazi sostenibili in grado di soddisfare i bisogni della popolazione quali cibo ed energia primaria e preservare la stabilità e la ricchezza degli ecosistemi naturali.
E’ quello che avviene nel campus dell’università del Qatar dove il dipartimento di architettura lavora da diversi anni sul tema delle città rigenerative. Questo nuovo approccio integrato alla pianificazione e al design ha permesso di sviluppare piani per paesaggi commestibili progettando un campus universitario autosufficiente dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare e con un alto indice di biodiversità.

Molto interessante è il progetto Pixel Farming elaborato nel campus di Almkerk in Norvegia, un’alternativa molto promettente alla monocoltura in agricoltura. Il terreno è suddiviso in lotti modulari di 10x10cm, ad ognuno dei quali è assegnata a una specie vegetale che può anche ripetersi per diversi moduli. Un robot coordinato con un sistema GPS pianta le sementi e ne memorizza la posizione mentre tutti i tipi vegetali vengono mescolati tra loro. La compatibilità tra le varie specie ne rafforza la crescita permettendo di evitare i pesticidi. Il paesaggio che ne risulta è variopinto e altamente produttivo.
Tale è il cambiamento in corso che mentre IKEA del lavoro da casa ne fa uno stile di vita, il giornalista Michele Serra si chiede se la rivoluzione verde e la sfida della campagna affiancherà agli urbanisti i “paganisti”, ovvero i progettisti del pagus, i luoghi rurali. Intanto i neonati trends pandemici hanno spinto il governo giapponese ad offrire fino a 1 milione di yen (9.500 dollari) alle persone che si trasferiscono nelle aree rurali continuando a svolgere il proprio lavoro a Tokyo da remoto.
In questa oggi possibile (e sperimentata) flessibilità professionale il paesaggio diventa una bio-tecno superficie dove la rete e le tecnologie digitali delocalizzando la concentrazione del lavoro offriranno nuove sinergie tra le persone e gli spazi l’ambiente.
L’Italia, con oltre 22.621 centri storici distribuiti capillarmente nel territorio ha difronte un’opportunità irripetibile per aggiornare la vivibilità del nostro paesaggio secondo forme evolute di convivenza sociale e progettuale da operarsi attraverso una strategia di decentramento e micro-operatività:
lavorare da casa, in campagna, produrre e convivere nei propri luoghi d’origine combinando alla rete e al digitale alti livelli di specializzazione individuale.
E se il “passato è nel domani” come ha scritto Eszter Steierhoffer evocando i Superstudio, allora quella visione dell’architettura radicale italiana di un nuovo modo di abitare il pianeta proposto nel cortometraggio del 1972 è più che mai attuale.
Non a caso forse, proprio Rem Koolhaas durante il festival Universo Assisi domandò al capogruppo dei Superstudio Adolfo Natalini, quanto in quelle idee rivoluzionarie ci fosse l’influenza della campagna…