IL CINEMA ITALIANO È LIBERO? Più dei suoi spettatori

Andrea FioravantiBy Andrea Fioravanti|In Vedere|10 Minuti

Il cinema italiano è davvero libero? Prima di rispondere a questo interrogativo che, a tutta prima, ha i contorni della domanda sull’Essere posta da Aristotele, cerchiamo di capire il senso della questione. Cosa intendiamo per cinema italiano? Gli autori di punta? L’industria cinematografica nel suo insieme? Le opere più importanti? E soprattutto cosa intendiamo per libertà? L’autonomia creativa? L’emancipazione dai vincoli produttivi? L’indipendenza dai condizionamenti di pubblico e critica? Si tratta di un tema imponente dalle molte sfumature e diramazioni che quasi quasi si finisce per invidiare Aristotele, visto che nemmeno un trattato delle dimensioni della Metafisica potrebbe esaurire l’argomento. Proviamo a definire il campo.

Il cinema italiano non è in uno dei suoi periodi più bui. I vecchi maestri come Marco Bellocchio, Gianni Amelio, Mario Martone, Nanni Moretti non si stancano di proporre liberamente le domande che hanno innervato la loro poetica. La generazione dei registi di qualità che fanno anche cassetta, su tutti Paolo Sorrentino, Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Stefano Sollima , Riccardo Milani, Matteo Rovere e Paolo Genovese sono sempre lì che sfornano film e serie TV non banali. E poi registi come Pietro Marcello Alice Rohrwacher, Francesco Munzi, Leonardo Di Costanzo, Susanna Nicchiarelli che fanno della coerenza e della fermezza ai loro dettami espressivi una necessità non negoziabile. Senza nemmeno citare l’intero movimento del documentario dove la leggerezza del budget e del sistema permette ai registi di coltivare una certa libertà d’espressione. Ovviamente questo non vuole essere un peana all’ampia libertà del cinema italiano. Chi mastica un po’ l’ambiente e conosce i risvolti realizzativi sa che il cinema italiano è qualcosa di complesso che non può essere banalizzato in poche righe. Abbiamo ben presente i limiti e le criticità, a partire dalla poca libertà di scelta degli attori, ridotti sempre agli stessi nomi. Pierfrancesco Favino, Elio Germano e Tony Servillo hanno rappresentato tutti i personaggi importanti della storia del nostro Paese, come papi, poeti, santi, padri della patria, politici, scrittori, rivoluzionari, una cosa che, al di là degli ottimi risultati finisce per apparire un po’ comica. Anche la commedia attinge sempre alla solita compagnia di giro composta da Marco Giallini, Alessandro Gassman, Rocco Papaleo, Anna Foglietta, Edoardo Leo, Stefano Fresi, Paola Cortellesi e i soliti altri noti.

Altri problemi del cinema italiano sono le temerarie manovre di produttori che come pirati solcano i mari dei finanziamenti e dei fondi cercando di arraffare il più possibile, senza pensare ad un reale progetto di rilancio e crescita, simili in questo ai grandi distributori che sono per definizione i meno lungimiranti del settore.

A tutto questo aggiungiamo l’enorme peso delle piattaforme che, con la loro invadenza, omologano prodotti e gusti del pubblico, aspetto questo di cui ci occuperemo più nel dettaglio, ribaltando la domanda iniziale: Lo spettatore italiano è davvero libero?

Già perché a fronte di uno strano momento di euforia produttiva ed artistica fa da contraltare uno smarrimento degli spettatori persi tra le molteplici offerte delle piattaforme e le solite proposte della sala, quelle di cui poi discutere sui social. Una situazione iniziata ben prima della drammatica emergenza Covid. Le sale cinematografiche hanno sofferto, anzi, sono state travolte dalla chiusura «virale», in un declino che le vedeva già in crisi con il progressivo affermarsi (e moltiplicarsi) delle piattaforme. Ed il pubblico? Gli anni più recenti hanno visto una mutazione paradigmatica del ruolo dello spettatore, dovuta alle trasformazioni dell’universo tecnologico nelle abitudini quotidiane e a un progressivo cambiamento nei consumi culturali. I punti di accesso alle opere filmiche si sono moltiplicati, la sala cinematografica non è più al centro della visione. Non siamo qui a demonizzare le piattaforme di cui si riconosce invece il merito di avere fatto ordine nella ricerca gratuita e selvaggia dei film in rete, aggiungendo contenuti che non trovano spazio fino addirittura a finanziare e produrre opere e registi. 

Un tempo era la televisione il nemico del cinema, la si demonizzava come l’oppio dei popoli. Ora lo schermo, come uno specchio, si è rotto in mille piccoli pezzi. Con i PC, tablet, smartphone oggi un film vive la parte più significativa della sua vita non in sala, ma sulla rete a portata di mano del pubblico.

E qui cominciano i guai e i condizionamenti dello spettatore. Partiamo dai vincoli principali e più banali: la completa messa a disposizione di un prodotto come un film impigrisce lo spettatore, togliendogli quella entusiastica disciplina alla fruizione comune dell’opera che lo costringe ad uscire di casa. Il cinema domestico goduto su un piccolo schermo se da un lato è comodo dall’altro fiacca la nostra volontà. Inoltre il cinema su questi riproduttori si vede male. Immagini nate per essere viste su un grande schermo, in una sala buia, con il giusto audio sono rimpicciolite, con audio spesso su cuffiette e alla mercé della nostra sempre più inquieta distrazione. Il film fruito nella sala cinematografica è abbandono, immersione, profondità, riflessività. Nell’epoca social del multitasking, della velocità, della immediatezza, il cinema visto in sala appare statico. La meravigliosa ed apparente privazione di libertà della sala, dettata dal buio, dall’immobilità fisica, dall’impossibilità di negoziare e interagire coi contenuti, sono diventati ostacoli per in nuovo consumatore. Lo spettatore postmoderno ha smesso di concedere la sua fiducia ad un’opera per più di due ore, si affida piuttosto alla frenetica ricerca di contenuti che, se non attivano la sua gratificazione istantaneamente, può abbandonare senza rimorsi. Un atteggiamento che rischia di schiacciare e appiattire ogni ambito del linguaggio cinematografico non basato sull’appagamento immediato. Questa sterzata verso la semplificazione e l’immediatezza ha modificato l’immaginario collettivo in modo preoccupante. Schemi narrativi consueti diventano stereotipi che prendono il posto della componente estetico-immersiva e la prevaricano. Abituarsi a fruire del cinema sui piccoli schermi devia e condiziona il gusto. Il concetto centrale di serialità dei prodotti, indispensabile per stabilire una fidelizzazione del cliente, aumenta il portato di questo equivoco. Nel piccolo schermo la trama diventa centrale. Risulta difficile immergersi in un lungo primo piano o nello sterminato orizzonte naturale di un lentissimo campo lungo reggendo nella mano lo schermo del telefono. Più semplice seguire il concatenarsi degli eventi. I personaggi devono agire, patire, subire, attraverso fatti eventi legati da una consequenzialità narrativa che fa perdere tutto il resto. 

Sul grande schermo il sollevarsi di un sopracciglio del viso inquadrato su un primo piano ha la stessa potenza di un terremoto emotivo; 

allo stesso tempo una meravigliosa sequenza d’azione, sia essa un inseguimento, una sparatoria, una battaglia ci regala la capacità di esserne non solo spettatori incuriositi, ma soggetti partecipi emozionalmente.

In conclusione, i nuovi modi di fruire del cinema, in particolar modo il costante ridursi dello schermo e il confronto con la serialità aumenta a dismisura l’importanza del racconto e del plot narrativo. Questa sopravvalutazione della trama va a detrimento di tutte le altre componenti dell’arte filmica e della libertà di giudizio dello spettatore che rimane sempre più incatenato alle “cose” del racconto.

Alla prima lezione di cinema il mio caro vecchio docente mi disse che per analizzare un film si dovrebbe innanzi tutto dimenticare la trama. Come se si analizzasse il David di Michelangelo solo in riferimento a ciò che sta facendo: un giovane che si appresta a lanciare un sasso stretto nella mano.

Senza parlare dello stile, dei chiaroscuri e dell’armonia. Dunque si dovrebbe dimenticare la trama o per lo meno non sopravvalutatene l’importanza per comprendere bene un film. Solo così lo spettatore sarà davvero libero di giudicare un film.

 

di Andrea Fioravanti

revisione di Promise Edoziogor