Non siamo ciò che mangiamo, ma mangiamo ciò che siamo

Intervista a Massimo Donà
1.Cosa possiamo dire di Rabelais quando all’inizio dell’opera Pantagruel, consiglia: liberatevi di ogni preoccupazione, non scandalizzatevi, non aspettatevi di crescere in perfezione, ma tenete per certe molte risate…
Possiamo dire che rappresenta alla perfezione lo spirito più autenticamente laico della cultura umanistico-rinascimentale. Siamo nella prima metà del Cinquecento e Rabelais allestisce il suo ‘esagerato’ inno alla vita; ad una vita concepita in tutte le sue declinazioni; anche quelle apparentemente meno nobili. Che, in ogni caso, erano apparse meno nobili solo agli occhi di una cultura di cui Rabelais tesse appunto una critica radicale, se non addirittura feroce. Il suo dissacratorio romanzo in cinque puntate, infatti, vuole farla finita con l’ideale ascetico che ci aveva troppo a lungo fatto credere che la verità non potesse che farsi nemica della vita – per dir così. Che ci si potesse salvare, cioè, solo rinunciando alle gioie che la vita è generosamente disposta ad offrirci. Per Rabelais, al contrario, compito di ogni essere umano, sempre che voglia apparire rinnovato e consapevole della propria natura miracolosa (come quella già messa in luce da Pico della Mirandola), è quello di non disdegnare alcuno dei sentieri che le varie età indicano come percorribili e probabili fonti di godimento: intellettuale, certo, ma sempre anche sensibile. Sì, perché la natura umana cantata da Rabelais vuole assaporare in pieno la libertà di cui siamo dotati; e dunque non può tollerare divieti, catene, imposizioni, superstizioni… che finirebbero per renderci schiavi. Come quelle che vorrebbero privarci dei piaceri carnali e animaleschi, in verità mai meno intensi – e per ciò stesso sublimi – di quelli spirituali.
2.Siamo subissati dal tema cibo, proposto in mille modi, talvolta affrontato in maniera fin troppo veloce, mentre la sua pubblicazione è uno scorrere lento e profondo, in antitesi a tutto quello che ci propone la stampa e la televisione di oggi…
Certo, il cibo parla di un’esperienza che è anche simbolicamente importantissima nella vita degli esseri umani. E che non può essere trattata come qualcosa di puramente meccanico, o relativo alla dimensione astrattamente animale (e dunque naturale), di cui l’umano è certo anche fatto. No, gli esseri umani si differenziano anche in relazione al modo in cui mangiano; oltre che per le lingue. Che, certamente, caratterizzano le più diverse forme di civiltà, come il modo di vivere o le diverse scale valoriali. Insomma, gli esseri umani, anche o soprattutto quando mangiano, mostrano quel che sono e che pensano. Perciò, è proprio in relazione al cibo che possiamo rinvenire, raccolte tutti insieme, le più grandi e complesse questioni che da sempre affaticano la mente dei filosofi. Perciò parlare del cibo impone di procedere senza fretta; come quando si fa filosofia. La riflessione, infatti, vuole un passo lento, attento, critico e consapevole. Perciò, anche nel numero uno della rivista Pantagruel, dedicato appunto alla Filosofia del cibo e del vino (curato da me e da Elisabetta Sgarbi per la casa editrice La nave di Teseo), ho voluto che il lettore fosse messo in condizione di “leggere” senza l’ansia di arrivare subito alla fine. Gli approcci al cibo con cui il lettore viene invitato a misurarsi sono molteplici, i modi di riflettere intorno all’esperienza alimentare che ho voluto raccogliere in un volume di quasi mille pagine sono davvero tanti e spesso anche radicalmente distanti I’uno dall’altro. Ho voluto poi dotare il volume anche di un controcanto fotografico, costituito dalle immagini di sapore metafisico realizzate da Raffaella Toffolo; perché ritengo che il cibo dovremmo cominciare non solo a pensarlo, ma anche a “vederlo”, in modo nuovo, metafisico, onirico e sufficientemente misterioso. Insomma, scrittori, antropologi, chef, imprenditori, storici dell’arte, filosofi, produttori di vino, fotografi, attori… con tutti costoro abbiamo voluto far comprendere come quella del cibo fosse in verità una sfida quanto mai stimolante per tutte le possibili pratiche culturali. D’altro canto, anche con i miei libri sul vino ho cercato di impostare un nuovo modello culturale, non più specialistico, ma in grado di accompagnare il lettore lungo i sentieri di un’avventura coraggiosa ma anzitutto libera, critica e disincantata come quella che, con il Master organizzato dal San Raffaele in collaborazione con Cook del Corriere della Sera e alcune aziende sostenitrici… io, Angela Frenda, Giacomo Petrarca, Gabriele Principato, Giulio Goria e altri giovani intellettuali abbiamo voluto trasformare in una scuola di formazione per i futuri protagonisti del mondo del food.
3. « Incontrare la cucina italiana, scrive Umberto Eco nell’introduzione del saggio di Elena Kastioukovitch, vuol dire scoprire la differenza abissale, non solo di linguaggio, ma di gusti, mentalità, estro, sense of humour, atteggiamenti di fronte al dolore e alla morte, loquacità o silenzio, che separano un veneto da un sardo » cosa ne pensa Lei ?
Sono assolutamente d’accordo con Eco. Il cibo e la cucina restituiscono, forse in modo ancora più vivido di altre manifestazioni dell’umana creatività, il carattere e la specificità, ma anche il timbro delle più diverse tradizioni culturali. Noi infatti, oserei dire – pur sapendo di risultare irrispettoso nei confronti di Feuerbach (filosofo tedesco attivo sino alla seconda metà dell’Ottocento) –, non “siamo ciò che mangiamo”, ma mangiamo ciò che siamo. O meglio, mangiamo in corrispondenza al modo in cui pensiamo l’essere umano e la sua collocazione nel mondo; al modo in cui pensiamo la vita e la morte, la parola e l’immagine, il suono e il silenzio. Insomma, quanto dice, la cucina italiana, del nostro Paese? Ne sono convintissimo: non meno di quello che dicono, di noi, i capolavori di Giotto, di Raffaello, di Leonardo, di Leon Battista Alberti, Giordano Bruno, Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Croce, Gentile e Severino.
4.Come nasce il suo corso sulla Filosofia del vino? Cosa riscontra nei giovani alunni universitari di oggi ?
Il corso nasce dalla lucida consapevolezza del fatto che dovremmo finalmente smetterla di distinguere o addirittura separare le materie nobili dalle quelle plebee. Purtroppo, la scuola italiana è sempre stata affetta da questo vizio; si è troppo a lungo creduto che le materie umanistiche o scientifiche in senso alto godessero di ben altra dignità rispetto a quelle immediatamente rivolte alla prassi. Una divisione che ha quasi sempre finito per coincidere con una divisione di classe; le famiglie benestanti, blasonate, al liceo; quelle proletarie, invece, negli istituti tecnici o professionali. In realtà la filosofia si è sempre occupata di tutto; anche delle questioni relative alla prassi o alle necessità naturali. La filosofia – dove sia stata buona filosofia – non si è mai limitata a parlare di se stessa. Ma ci ha, piuttosto, insegnato a guardare il mondo; in tutti i suoi aspetti. E a capire, per dirla con Shakespeare, che ci sono più cose in cielo e in terra, di quante ne sogni la nostra filosofia. Ed è proprio a queste cose che la filosofia ha, secondo me, il compito di guardare. E quindi anche al vino; che peraltro, da sempre, i filosofi hanno fatto oggetto di straordinarie riflessioni – già a partire da Platone. E i giovani questa vocazione… mi sembra di poter dire, la apprezzano tantissimo.
5.Per lei esiste una corrispondenza tra significante e significato, tra contenitore e contenuto, tra l’etichetta di un vino e quello che può restituire al compratore?
Diceva il grande Mario Soldati (nel suo bellissimo volume “VINO AL VINO”) che l’etichetta dovrebbe restituire al compratore una vera e propria carta di identità del vino da essa rappresentato. Diceva cioè che l’etichetta non può esimersi dall’indicare, oltre al tipo di vitigno, anche il territorio, la cantina, e l’annata… e non solo di imbottigliamento, ma anche di vendemmia. Sì, perché il vino è come l’essere umano; ogni bottiglia custodisce una irripetibile individualità. Il vino è sempre singolare. E, così come non ci innamoriamo mai di una donna che si chiama Elena per il semplice fatto che si chiami Elena, ma perché è quella persona lì, nata in quel luogo, educata in quel modo, dotata di quel preciso sguardo, di quel sorriso, etc etc, allo stesso modo ci innamoriamo di un vino perché è quello lì. Non basta che sia un raboso, che sia un valpolicella, che sia un verdicchio, che sia un amarone o un negroamaro! Ma, purtroppo, non sempre le etichette sono così precise. Perciò tanto spesso rischiamo di tradire la natura singolare che viene ospitata e custodita da qualsivoglia bottiglia; e non capiremo mai perché il vino – come dice Baudelaire in “L’anima del vino” – preferisca di gran lunga scivolare giù lungo la nostra gola che rimanere rinchiuso nelle fredde cantine o nelle algide bottiglie in cui siamo soliti imprigionarlo-.
6.Da quasi oltre un secolo in Asia è stato scoperto un gusto in più, l’Umami, in che modo potrebbe arricchire la filosofia del gusto ?
L’unami, scoperto in Giappone nel 1908, indica un quinto gusto, oltre il salato, il dolce, l’amaro e l’aspro. La parola giapponese significa ‘saporito’, e dunque, mi sembra, oltre che indicare un quinto gusto, indica anche la proprietà generale che il cibo denuncia ogni volta che attraversa il nostro cavo orale. Certo le cellule recettrici, situate nel cavo orale, sono responsabili della molteplicità di gusti con cui il mondo viene percepito dall’essere umano; ma il cibarsi, è bene ricordarlo, è pur sempre un modo attraverso cui, introiettando il mondo esterno, neghiamo la sua esteriorità, ovvero la sua alterità. E lo facciamo diventare parte di noi. Ad ogni modo, io credo che una corretta filosofia del gusto dovrebbe rendersi consapevole anzitutto di questo: del fatto che i gusti in verità sono infiniti; perché infinite sono le caratterizzazioni che rendono sempre unica ogni esperienza del mondo. Unami, sì certo… importantissimo. Ma sono certo che una ricerca attenta e libera, nonché capace di ascoltare il mondo, potrebbe rintracciare altre infinite specificazioni del gusto. Che dunque non finiranno mai di sorprenderci ed estasiarci.
7.C’è una relazione tra la filosofa del piacere occidentale con quella orientale? Dove è finito il gusto umami in Occidente ?
Occidente e Oriente indicano una polarità che, come tutte le polarità, è destinata a non venire mai silenziata o annichilita. Gli opposti, in quanto tali, non ci consentono di dissolvere la loro oppositività. L’uno è solo in funzione dell’altro, e viceversa. Per questo credo che, nonostante la globalizzazione e il processo di omologazione (che stanno radicalmente trasformando il nostro pianeta), il mondo e l’esperienza non possano mai fare a meno di presupporre opposizioni radicali e per ciò stesso irrisolvibili. Potremmo forse vivere e comunicare senza far riferimento all’opposizione bene-male, buono-cattivo, bello-brutto, alto-basso ? Certamente no; ecco, allo stesso modo, ci saranno sempre un Oriente e un Occidente. Che, fortunatamente, rimarranno sempre altri l’uno dall’altro. Ogni luogo della terra può infatti essere orientale in relazione a certi luoghi e occidentale rispetto ad altri. Ma se Occidente ed Oriente non possono mai identificarsi, allora anche la filosofia del piacere orientale non potrà mai coincidere con quella occidentale; per quanto, ormai, le culture si conoscano sempre meglio e siano sempre più curiose le une rispetto alle altre. Insomma, il gusto unami, in Occidente – ma questo lo dico io –, potrà venire concepito al massimo come gusto generale e sintetico. E mai come fondamentale – secondo quanto ci avrebbe suggerito la scoperta giapponese. Certo… che un cibo sia saporito, lo rileviamo e lo diciamo anche noi. Anche se, dicendo questo, gli occidentali, pur non dicendo salato, pur non dicendo dolce e neppure amaro etc., neppure dicono qualcosa che “escluda” queste qualità. Che sia cioè semplicemente ‘altro’ da queste ultime.
8.Possiamo pensare che esistano delle linee di continuità tra i gusti fondamentali e le connotazioni caratteriali ? In altre parole, una persona golosa è anche una persona dolce ?
Ecco una questione molto interessante, che meriterebbe ben altri e più adeguati approfondimenti. Infatti, se è vero, come è vero, che l’anima dell’essere umano è una (per quanto composta di varie funzioni.. come sapevano bene già Platone ed Aristotele – ad esempio, la funzione sensitiva, quella irascibile, quella vegetativa, quella appetitiva, quella razionale etc. etc.), allora è chiaro che tutte le pur diversissime funzioni e attitudini di cui essa (l’anima) è di fatto portatrice, dovranno necessariamente riflettere (in qualche modo) una tale unità. Si parla spesso di sinestesia; in rapporto alla rete unitaria disegnata dal nostro apparato sensoriale, che impedisce di “vedere” qualcosa senza che la sensazione così evocata comporti delle conseguenze anche per il gusto, per l’olfatto…etc. . Ma la questione credo sia ancora più complessa, e per ciò stesso quanto mai interessante. Credo infatti che vi sia non solo una ineludibile relazione tra il carattere psichico e le potenzialità cognitive di una persona; ma anche tra il gusto e la tipologia psichica; tra le disposizioni cognitive e l’articolazione del gusto, ma anche tra la vista e l’olfatto. Insomma, in noi, ogni attitudine ed ogni gesto esprimono una sinfonicità in base alla quale dovremmo ritenere tutt’altro che casuale il fatto che, come ha detto lei, una persona golosa sia spesso anche una persona dolce, dal punto di vista psichico.
9.Cosa accomuna le sue più grandi passioni?
Beh, le mie più grandi passioni sono tre. Due sono sicuramente note a chi mi conosce; ossia, la filosofia e la musica. La terza, forse meno nota, ha invece a che fare con l’arte visiva; che è poi la pratica cui da piccolo credevo di essere destinato. Per quanto in seguito abbiano preso il sopravvento (per vari motivi) la pratica musicale e quella filosofica. Ecco, lei mi chiede cosa accomuni queste passioni. La risposta potrebbe sembrare tutt’altro che facile; ma nello stesso tempo, anche, lo è… facile. Anzi, facilissima. Sì, perché si tratta di tre espressioni di un identico bisogno: il bisogno di intervenire sull’ordine dato e riconfigurarlo, al fine di portare alla luce forme, figure, possibilità che altrimenti sarebbero rimaste inespresse. E che, in quanto possibilità, il mondo, cioè il reale doveva necessariamente già custodire in se stesso. Possibilità di cui possiamo sentire il bisogno, peraltro, solo in quanto capaci di farci fare in qualche modo esperienza di quella che i filosofi hanno sempre pomposamente chiamato “verità”. Il fatto è che l’impegno cui ci obbligano tutte e tre queste pratiche talvolta riesce a mostrarci ciò che, del reale, non eravamo mai riusciti a sapere… a vedere e a comprendere. Forse quando suono, quando dipingo o disegno, insomma, così come quando scrivo e studio filosofia, ho anzitutto la chiara percezione del fatto che, se non avessi attraversato i sentieri disegnati da queste pratiche, la vita sarebbe stata per me molto più povera. E il mondo sarebbe rimasto pressoché muto di fronte alle mie incessanti e disperate domande. Forse, proprio interpellandolo con l’arte visiva, con l’arte sonora e con l’arte del concetto, riesco dunque a trasfigurarlo; o meglio a trasfigurare il mutismo della realtà, facendone la condizione di un’inedita beatitudine psichica e di sprofondamento nell’infinitudine che, molto probabilmente, agita dall’interno ogni possibile finitezza.