La vera storia di Richard Jewell nel capolavoro di Clint Eastwood

Un inno alla libertà, quella meno romantica e poco attraente.
Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente cose che non vogliono sentire.(George Orwell)

Andrea FioravantiBy Andrea Fioravanti|In Vedere|7 Minuti

Richard Jewell, il film diretto da Clint Eastwood, è solo l’ultimo dei ritratti nella personale galleria del regista, che negli ultimi tempi pare aver trovato la sua ispirazione nelle storie vere degli eroi quotidiani. La vicenda è nota ed è ambientata nei giorni dell’inaugurazione delle Olimpiadi del 1996 ad Atlanta. Richard Jewell, che nel prologo ci viene presentato come un ex poliziotto con un’autentica mania per il controllo, è uno dei vigilanti che sorveglia gli spazi dei giochi olimpici. In mezzo al caos della folla, durante un concerto al Centennial Olympic Park, Richard nota qualcosa di sospetto. Uno zaino, in apparenza anonimo, giace abbandonato su una panchina: sembra a tutti gli effetti un attentato. Il giovane lancia l’allarme e riesce così a far evacuare la zona permettendo di limitare i danni dell’esplosione. Improvvisamente Richard sale agli onori della cronaca. Da un giorno all’altro, il petulante funzionario della sorveglianza si ritrova catapultato sotto i riflettori. Lo considerano un eroe. Tutti ringraziano e acclamano questo anonimo paladino dell’integrità.

Ma i perversi ingranaggi della giustizia e una stampa più assetata di scoop che di verità trasformano l’eroe nell’attentatore. Dopo pochi giorni, sulla base del suo passato, Richard viene messo sotto indagine dall’FBI che cala su di lui l’identikit del perfetto lupo solitario in cerca di gloria per riscattare una vita da frustrato. Questa indagine viene rivelata a una giornalista d’assalto e il ragazzo finisce nel tritacarne dell’informazione che da luminoso paladino lo trasforma in oscuro carnefice.
Giorno dopo giorno, la sua vita sprofonda in una drammatica aggressione legalizzata da parte dei media e delle forze dell’ordine. Un accanimento senza esclusione di colpi che sconvolge la vita di Richard, quella di sua madre e persino la tranquillità del loro cagnolino. Una famiglia privata della propria libertà e gettata nel baratro di un incubo senza fine.

Il film è decisamente meraviglioso. La vicenda realmente accaduta del vigilante obeso, convinto repubblicano che vive con la mamma apprensiva, collezionando armi da fuoco, è un inno alla libertà più profonda

Una libertà poco romantica, per nulla attraente perché riguarda un individuo lontano dalle nostre ordinarie simpatie ideologiche ed umane. A maggior ragione, ci mostra Eastwood, una libertà da difendere con le unghie e con i denti. Ed è su questo terreno che gioca la sua partita il vecchio regista, non levigando mai gli spigoli vivi del carattere di Richard Jewell (strepitosa interpretazione di un “pesante” Paul Walter Hauser). Il protagonista, con una convinzione che sfiora l’ottusità, continua a credere nell’onestà del sistema giudiziario americano anche quando questo fa di tutto per ingannarlo ed estorcergli una confessione illegale. Il nostro Clint sa gestire le indignazioni come pochi, ma soprattutto sa come spingere sui sentimenti più naturali senza risultare mai retorico né tantomeno pedante. Un miracolo che rinnova attraverso “scene madri” che nella mani di altri autori risulterebbero didascaliche e inefficaci. In particolare la seconda parte del film ci propone una serie di sequenze in cui il crescendo di emozioni portano l’animo dello spettatore ad essere totalmente compartecipe dell’ingiustizia subita dai protagonisti. Quindi non possiamo che piangere quando la madre (una commovente Kathy Bates) esplode di rabbia perché non sa come difendere il suo “ragazzone”. Allo stesso tempo ci inorgoglisce il coraggio del suo avvocato (un brillante e insieme introverso Sam Rockwell) che sfida i giornalisti sul loro terreno convocando una conferenza stampa in cui denuncia i metodi della comunicazione e quelli dell’FBI. Il film Richard Jewell è l’ennesima sfida vinta di un regista mai domo che punta sul particolare per raggiungere l’universale. Così dall’infallibile cecchino abbandonato alla sua depressione di American Sniper (2014) al pilota Chesley Sullenberger che salvò le vite dei passeggeri atterrando nel fiume Hudson, salvo poi essere messo sotto inchiesta in Sully (2016), passando per i tre scapestrati militari (interpretati da loro stessi) che sventarono un attentato su un treno Parigi-Londra in Ore 15:17 – Attacco al treno (2018), fino alla vera storia di Earl Stone anziano novantenne reduce della guerra di Corea costretto a diventare corriere per il cartello della droga messicano in The Mule (2019),

Clint Eastwood rinnova il prodigio del reale che attraverso il prisma del cinema puro scompone la “banale complessità” della vita nelle emozioni più semplici.

Il suo cinema è capace di trasportare lo spettatore all’interno delle vicende che ci racconta rendendolo partecipe nella maniera più viscerale possibile delle vicissitudini dei suoi personaggi. Anche Richard Jewell è un’opera complessa e stratificata nei suoi concetti, ma ciò che sconcerta è come il film si strutturi attraverso i principi elementari della filmografia di Clint Eastwood: una direzione degli attori attenta; una messinscena sempre credibile nella sua ricostruzione; una narrazione che non tentenna mai e che tiene sempre presente il proprio messaggio dal primo all’ultimo fotogramma; un amore smisurato per i suoi personaggi che si guarda, però, dalla narrazione agiografica; la ferma volontà di raccontare le contraddizioni contemporanee affrontando anche gli ideali più solidi dell’american dream come l’inviolabile libertà del cittadino, su cui si basa tutta la mitologia degli USA.

È faticoso e a volte davvero imbarazzante dover ammettere che questo cinema libero, emozionante e semplice ce lo regali anno dopo anno, pellicola dopo pellicola, un testardo conservatore di novanta anni che per fortuna non si rassegna a godersi il suo meritato riposo. Grazie davvero nostro amato Clint.