L’Iliade
Il primo esempio di esagerazione nella storia della letteratura occidentale si trova quasi all’inizio dell’Iliade.
Mentre i vecchi Troiani osservano dall’alto l’arrivo dell’esercito greco sopra l’eccessiva pianura di Troia, Omero ci fornisce le esatte dimensioni della paura.
Dichiara in anticipo che neanche a gola spiegata, con dieci lingue e una voce di ferro potrebbe contare i guerrieri di questo esercito incessante ma poi, per un suo vizio poetico, ci prova lo stesso. In mancanza di una lingua tanto acrobatica, evita di elencare tutti i nomi ma si limita solo a quelli di re e capitani giunti a Troia sulle rispettive navi.
Nonostante ciò, questa scorciatoia gli porta via trecentocinquanta versi.
L’esagerazione è una forma di irrealtà consueta e piuttosto scontata per l’epica. Ogni poeta epico che si rispetti deve avere un certo talento per l’immensità.
Tuttavia, nonostante il suo pubblico avesse orecchie esercitate all’enormità, in questo caso si ha quasi l’impressione che Omero faccia di tutto perché gli si creda il meno possibile e tenti di dare un’immagine il più possibile imprecisa dell’abbondanza perché, in fondo, l’accumulazione incessante e ostinata non è che un espediente per dare la forma esatta dell’infinito. Se i numeri fossero reali, le dimensioni della sua fantasia sarebbero talmente insostenibili da pensare che l’esercito greco di contadini e pastori che giunse a Troia dodici secoli prima di Cristo fosse equiparabile agli eserciti congiunti di Stati Uniti, Britannia e Canada che presero parte alle operazioni dello sbarco in Normandia.
È troppo, anche per un’esagerazione.
Eppure, in tutte le esagerazioni c’è una buona dose di verità. Basta trovarla.
Dopo questa lezione di immensità, nel canto successivo appare Elena. È per lei che, quasi dieci anni prima, era partito dalla Grecia questo numero sfrenato di greci da combattimento. I vecchi troiani, vedendola, ce la mettono tutta a dichiarare che non è vergogna che i Greci e i Troiani da dieci anni soffrano le pene dell’inferno per una donna simile come se, in tutto quel tempo, piuttosto che starsene murati in casa dall’assedio arrabbiati di impotenza ne avessero approfittato per frequentare un bel corso di cordialità. Tuttavia, leggendo questi versi ci si sente quasi in dovere di non rassegnarsi per forza a credere a qualsiasi cosa.
La verità è che, a parte queste troianerie che servono a conferire dignità ai nemici, la guerra di Troia è scoppiata per una ragione del tutto futile. Se non si considera come la conseguenza esorbitante di un pretesto frivolo, l’intero catalogo delle navi è poesia sprecata.
La guerra di Troia, così come Omero la presenta nell’Iliade, è semplicemente questo: un conflitto che, iniziato per capriccio, ormai non si può più sciogliere.
I conflitti interni allo schieramento greco sono portati in primo piano quasi più della guerra stessa e impediscono agli assedianti la vittoria. Troppi re e uomini alleati di Troia sono morti per difenderla e Ettore non può scendere a patti con i Greci perché deve vendicarli. Ormai la giustizia è stata violata così tante volte che tutto ciò che si può fare di pratico si può fare solo nell’ingiustizia e nell’odio.
La Guerra di Troia non è che questo: un eccesso di realtà scoppiato per caso e ormai diventata una forma di esistenza insuperabile; è l’esorbitante normalità di uno stile di vita divenuto implacabile; l’istinto di concretezza di cuori ritornati selvaggi che proclamano il loro diritto di essere invincibili ed esercitano il legittimo appetito di dominio che affligge gli uomini affetti da quella stessa esistenza che rende impossibili i patti tra un uomo e un leone o tra un lupo e un agnello. La loro natura li fa odiare senza riposo. L’unico patto possibile tra loro è la morte di uno dei due.
La Guerra di Troia non è che questo: un eccesso di realtà scoppiato per caso e ormai diventata una forma di esistenza insuperabile; è l’esorbitante normalità di uno stile di vita divenuto implacabile;
l’istinto di concretezza di cuori ritornati selvaggi che proclamano il loro diritto di essere invincibili ed esercitano il legittimo appetito di dominio che affligge gli uomini affetti da quella stessa esistenza che rende impossibili i patti tra un uomo e un leone o tra un lupo e un agnello. La loro natura li fa odiare senza riposo. L’unico patto possibile tra loro è la morte di uno dei due..
Nell’Iliade, sembra ripetersi all’infinito sempre lo stesso duello. Cambiano i nomi e i volti degli eroi ma, se tutto cambia, è perché niente cambi mai. Loro restano sempre gli stessi, arrampicati sullo scudo, appesi alla lancia, dalla parte giusta o sbagliata della spada o stesi a terra a ringhiare di dolore, uno prima e l’altro dopo, ma in questo non c’è alcuna differenza. Le parole sono sempre le stesse. Omero non dice come il conflitto è iniziato né come finirà. La guerra di Troia è una qualità del tempo che è come sospeso e il suo puro scorrere non cambia niente dell’essenza delle cose.
Al libro undicesimo inizia una giornata che vedrà il pomeriggio dopo quasi sei libri e bisognerà aspettarne altri due per vederne il tramonto. In compenso, è mezzogiorno due volte come se il tempo non fosse altro che un semplice accessorio del paesaggio. Di continuo Omero descrive il rumore che fanno i massacri e le budella che assaggiano il bronzo gocciolante di stragi. Eppure, si ha sempre l’impressione che sia tutto inutile. Volutamente sembra che non succeda mai niente. Si combatte in ogni modo, tranne che come serve.
Ogni volta che si profila un’azione che possa mettere fine alla guerra, improvvisamente, scende la nebbia.
All’inizio del poema lo scontro per eliminazione diretta tra Paride e Menelao sembra inoculare abbastanza fiducia nei cuori rappresi dei greci e dei troiani che affidano a questo spareggio l’esito della guerra. Tuttavia, quando finalmente questa brutta faccenda si sta per concludere con la bella impiccagione di Paride con il cinturino dell’elmo, improvvisamente una nebbia precipitosa rende l’aria così impermeabile alla luce da consentire ad Afrodite di salvare Paride e riportarlo direttamente in camera da Elena, con una certa devozione canina. Nonostante Elena sia colpevole per convenzione, lei stessa non ne può più di queste pastorellerie sentimentali e delle vergognose figure da mezzana di Afrodite che fa di tutto per convincerla a fare la baldracca pur di tenere Paride lontano dalla guerra.
Questi brandelli di nebbia, con il quali gli dèi intervengono nel cielo inferiore degli eroi e parlano loro da dietro il vapore come fantasmi di statue, sono un incidente allegorico più che meteorologico. È questo il mondo con cui Omero aguzza la sua poesia per dire che la ragione, nella pianura di Troia, è avvolta nella nebbia.
Non c’è un simbolo migliore per indicare l’impossibilità pratica di concludere la guerra di Troia del rutilante groviglio degli dèi che istiga di continuo il conflitto. Per i greci, gli dèi non sono altro che l’espressione della propria vita interna. L’intervento di un dio che si impossessa del corpo di un uomo non è che la traduzione in immagine della forte carica dinamica di un fondamento psichico e istintivo relativamente autonomo che, se non viene ricondotto ad un preciso ordine, risulta piuttosto esplosivo e ingovernabile. Zeus fa quello che può per amministrare le scaramucce d’alta quota di questi scatenati inquilini del cielo che decidono le sorti dei mortali ma più che un supremo giudice astrologico appare come un semplice segretario cosmico, incapace di fare da puntello a una qualche giustizia di ordine superiore alla quale ricondurre i tafferugli di questi dei in pantofole, posati sul dorso del cielo.
È una regola dell’Iliade che, quanto più il dramma degli uomini diventa serio, tanto più gli dèi diventano ridicoli.
Mentre Achille affoga le acque del fiume con i corpi dei troiani che ha messo sotto le unghie, improvvisamente Ares chiama Atena “mosca canina”. Allora Atena comincia a prenderlo a sassate sul collo finché Ares cade colpito da un attacco di cervicale che gli fa sollevare da terra circa duecentodieci metri di polvere. Afrodite, impressionata da questa triste vicenda anatomica del suo fidanzato, gli viene vicino con l’intenzione di affliggersi, lo prende per mano e se lo porta via ma, mentre se ne esce imbellettata di splendore, Atena le dà un mal rovescio sull’attaccatura del collier di perle per evitare che si porti via dalla mischia il dio della guerra, facendo del combattimento una festa popolare. Intanto, Era fa di tutto per provocare una catastrofe e cerca di tirare Apollo per la giacchetta nella rissa, ma Apollo sa che l’aria altezzosa gli sta a pennello e si rifiuta semplicemente di combattere per le pattumiere umane e non si sporca le mani per dei mortali simili a foglie che un minuto crescono e mangiano i frutti del campo e un minuto dopo imputridiscono nella terra. Tanto basta perché la giovane sorella Artemide lo nomini l’ultimo dei vigliacchi. Allora Era prende per un polso la cucciola di dea, le strappa l’arco dalle spalle e comincia a sbatterglielo in faccia tanto da torglierle il cerume dalle orecchie fino alle lacrime, finché Artemide le sfugge di mano per correre dal padre Zeus che fa onore al suo pianto prendendola sulle ginocchia ma, intanto, è fradicio dal ridere.
I greci stessi si mostravano colpiti dal fatto che i loro dèi si comportassero in modo così vergognoso e ridicolo. Tuttavia, non si può pensare un’Iliade senza gli dèi.
Sulla pianura di Troia, il loro dinamismo si manifesta in modo così intenso da provocare continue e formidabili esplosioni di energia che non si possono più conciliare e rendono impossibile qualunque soluzione della guerra. Gli abusi di ingiustizia di Agamennone mostrano la grossolanità della ragione concreta che favorisce il normale decorso dell’inettitudine politica e diplomatica perché l’essenza della concretezza non è che l’utilità e l’interesse.In queste condizioni è impossibile dare la pace agli uomini con mezzi meccanici perché ogni pace è ormai inconciliabile con quell’abisso elementare della natura umana, che è poi la stessa natura dei lupi e dei leoni cresciuti a carne e sangue. Tutto ciò che è possibile fare è lasciare che siano le spade e le lance a pensare a risolvere la guerra.
Eppure, le spade e le lance non pensano.
Tuttavia, tra tutte le armi che scodinzolano a vuoto nell’aria color bronzo, ce n’è almeno una che pensa.
E’ lo scudo di Achille.
Efesto l’ha fabbricato per lui dopo che Patroclo è morto per fraintendimento mentre indossava le vecchie armi di Achille, ormai entrate a far parte del guardaroba di Ettore. Questo dio, con funzione di fabbro olimpico, è un glorioso zoppo dall’anatomia tarata e l’aspetto convulso come tutti i primordiali specialisti i quali, non potendo prendere parte alla guerra, restavano isolati dal normale svolgimento delle cose e non trovavano altro da fare che intraprendere la strada della metallurgia.
Nella sua fucina in disparte, in quella parte remota dell’Olimpo dove evidentemente la presenza di combustibile e minerale coincidevano, solo per Efesto il conflitto assume dimensioni minime e distanti. Dopo aver invitato mantici e incudini, magli e tenaglie a discorrere con la materia grezza per assoggettarla ai sapienti pensieri della tecnica, fabbrica per Achille le armi e uno scudo grande e pesante.
Se la natura ha bisogno del mondo intero per esprimersi, ciò che è artificiale ha bisogno di uno spazio chiuso. L’ultimo giro del solido scudo riproduce il fiume Oceano che, correndo tutto intorno, richiama l’infinito al suo interno e gli imprime il sigillo della forma che addomestica il tempo e lo spazio dentro le sue dimensioni finite.
Dentro al cerchio dello scudo c’è l’intero cosmo, la terra, il cielo, il mare, il sole, la luna e tutti i segni del cielo. Inoltre ci sono due città. Come dentro una rigatteria di immagini, dentro la pianta di queste città ci svolgono banchetti, matrimoni, cortei di danzatori e suonatori, tribunali, assemblee, assedi e trattati; si vedono campi grassi arati da buoi e da aratori che giunti alla fine del campo bevono una coppa di vino dolcissimo prima di voltare; campi carichi di mietitori con in mano falci taglienti e ragazzi che portano spighe a bracciate mentre gli araldi del re preparano il pranzo e le donne il pane per i mietitori; si vede una vigna stracarica di grappoli che dei giovani portano dentro canestri intrecciati; poi una mandria di vacche difesa da cani e pastori mentre un branco di leoni l’assale; e ancora pascoli in una bella valle grande, stalle e capanne; danze di giovani con tuniche ben tessute e brillanti di olio profumato; vasai; acrobati.
La pianta di queste città non è altro che il ritratto dall’interno della civiltà umana.
Queste rappresentazioni non sono realisticamente riproducibili. Le scene si muovono come dentro un fumetto vivo e, chi volesse realizzare un arnese del genere, dovrebbe fare un cinema portatile.
Lo scudo di Achille non è un oggetto reale. Il fiume Oceano che lo circonda lo tiene separato dalla realtà.
È un oggetto del tutto astratto, perché solo in astratto può esserci ordine.
È con questo scudo che Achille scende in battaglia per dare a tutti la sua lezione di abissi che porterà alla strage di troiani e all’uccisione di Ettore.
Eppure, mentre imbraccia questo scudo, per la prima volta la realtà si carica di ideale. La pianura di Troia è tutta la geografia possibile, eppure lo spazio può produrre nuovi mondi.
Lo scudo di Achille è questo mondo; è il lato al rovescio della pianura di Troia; è la materia stessa che invita lo spirito a darsi una forma; è una fessura attraverso la quale si infiltra uno stato d’animo nuovo; è un appello al senso della vita al di là del non senso; è quello che l’esistenza dovrebbe essere e non è; è l’intuizione che qualcosa rimane al di là della pianura di Troia; è l’eterna dedizione all’idea che un po’ di perfezione è possibile; è la realtà che non esaurisce la vita; è la pianta dell’unica città degna di sguardo; è il destino ideale di tutte le stirpi; è l’avventura dell’umanità di cui ognuno è partecipe; è il presente profondo di ciascuno; è il segreto della fraternità della vita di tutti; è il ricordo che fuori della pianura di Troia c’è ancora un paese impossibile verso il quale voler sempre fare vela. Questo paese è la patria di ognuno, è Troia stessa liberata dall’assedio, è Itaca, Micene, Sparta, è Argo, Tebe, Atene, Pilo, Creta.
Anche Achille, dopo l’ultimo duello dove ha ucciso Ettore, sente che è stanco e che vuole andare a casa, nella sua patria lontana, a Ftia, a fianco di suo padre perché un ritorno alla propria umanità è sempre un ritorno a casa. Achille sa che il suo destino non è quello di andare, eppure sente di voler desiderare questo bene situato oltre la pianura di Troia, oltre se stesso.
Quella stessa notte accoglierà nella sua tenda il re Priamo, venuto a chiedergli di restituire il corpo del figlio Ettore ucciso. Dentro la sua tenda Achille e Priamo non smettono di essere greco e troiano, non smettono di essere nemici, le differenze non smettono di esistere. Achille sa che non potrà mai smettere di combattere.
Eppure, per una notte, i due nemici si ritrovano in una regione di sé stessi dove queste differenze si cancellano. Si ritrovano a casa, quella casa che è per tutti la stessa, il solo luogo al mondo dove un accordo è possibile perché il sentimento della propria umanità non è un bene che si spartisce. Lì stipulano una pace privata al riparo dallo sguardo di tutti.
Questa umanità, però, non può essere concreta. È lo scudo di Achille. È un’idea fatta d’aria, e l’aria non è nulla. Eppure, è quel certo nulla che è tutta la vita e solo rende possibile la realtà al di là della pianura di Troia.