Quando pensavo di aver capito – se non tutto abbastanza in tema di bocconi scelti – eccoti mio figlio che mi dice che non ci avevo capito niente. Parla facile lui che ha studiato a Londra, mangiato nei migliori deli di New York, vistato la Cina, la Malesia. Parla facile lui che fa il designer di moda a Milano, metropoli dai mille contrasti e dalle molteplici etnie.
Il sottoscritto, salvo qualche speziata incursione, è cresciuto a spaghetti, mica a noodles di soia e involtini primavera.
Mi va anche bene mettermi in discussione, gli dico, senza comunque rinnegare amatriciane e palombe alla ghiotta. Prima di farlo però, per non sfigurare, estraggo dallo scaffale della biblioteca “Il crudo e il cotto” di Claude Lévi-Strauss, in cui l’antropologo individua nella cottura del cibo un elemento fondante dell’ordine culturale: il mediatore del passaggio di una società dallo stadio naturale a quello delle regole sociali. Io mica sono venuto a valle con la piena. Furio sorride bonariamente, già è qualcosa. Dice che non capirò mai perché non sono stato a Xi’an, a Fenghuang, a Zhangjiajie o a Guilin nella contea di Yangshuo, che non ho visto le risaie di Longsheng dove il riso al pollo lo cuociono sul fuoco all’interno del bambù. E’ un vanto avere un figlio scevro da pregiudizi, in teoria capace di mangiare tutto ciò che cammina sulla la faccia della terra, salvo le gambe del tavolo. Non mi stupirei che avesse provato le larve d’ape o qualsiasi tipo d’insetto, compresi i piccoli scorpioni ed altre porcherie che si trovano normalmente nei mercati dello Yunnan. Ma poi mi convinco che è tutto relativo, perché se i sacerdoti romani prima della venuta del Cristo non avessero iniziato a cibarsi delle interiora degli animali sacrificati – dato che dei sacrifici non si butta niente – oggi non avremmo la coda alla vaccinara, i maccheroni con la pagliata o la coratella d’agnello in fricassea. Del resto dall’epatoscopia alla coltivazione dei bachi per uso alimentare il passo è breve. Lui mi spiega che i cinesi non si nutrono solo di prodotti bizzarri o considerati non commestibili nelle altre società: quanto e più di noi consumano animali domestici comuni allevati in stalla o nel pollaio. Allora si ragiona. Per punto preso, in un sussulto di amor di patria (e di padre), gli dico che la cucina regionale italiana è tra le migliori del mondo. Mi risponde che ha assaggiato cappelletti in brodo e code alla vaccinara “che voi umani non potreste immaginarvi”, pollastri “da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione”, tagliatelle al ragù e bucatini cacio e pepe “balenanti nel buio vicino alle porte di Tannhäuser”, spegnendo in me ogni entusiasmo quando mi ricorda che tutti quei piatti andranno “perduti nel tempo come lacrime nella pioggia”.

E’ una vera soddisfazione avere un figlio che ti prende per il naso dopo averti preso per la gola. Quello che mi frega è il ricordo dei fotogrammi di Blade Runner, l’atmosfera multietnica e maleodorante da bassofondo di città, dove i cinesi sono la maggioranza. Per quel poco che so delle teorie moderniste fondate sui pensieri forti provo ad adottare un atteggiamento bio-hipster. Peccato che mi senta un minuscolo Deckard in cerca di mettere qualcosa di commestibile sotto i denti, mentre il cielo percorso da navicelle che filano su una distesa di ciminiere in fiamme è nero come a guardarlo dallo spazio. Io che in Cina non ci sono andato non ce l’ho con la cucina cinese, ma con quell’ambientazione arcaicizzante dove gli scienziati – che mi ricordano Wuhan, capoluogo della pandemica provincia di Hubei – sono inevitabilmente tendenti al cinese. Come si fa a godersi un pasto mentre la downtown intorno è tappezzata di ideogrammi e non c’è distinzione tra il giorno e la notte? Ce ne vuole per convertirsi agli intingoli a base di ravioli cantonesi, ai polli alle mandorle, alle farine di soia e alle anatre alla pechinese quando hai avvitato per anni spaghetti intorno ad una banalissima forchetta. Mi rammarico, ma non troppo, di non essermi adeguato ai tempi, non fosse altro perché tra i padri e i figli non va mai interrotta quella catena di complicità che permetta ad entrambi di tenere insieme la natura delle cose, anche se questa ama celarsi come assicura Eraclito. Nondimeno, se non una certezza mi soccorre una speranza che rimanda alla vita di un genitore rimasto al palo tra il desiderio rasserenante di un universo perfetto e l’effettività di un mondo incompiuto. Così, tanto per non darmi per spacciato, gli domando:
“ma gli androidi sognano arrosticini di pecore elettriche?”
Temevo mi mandasse a quel paese, ma lui mi sorride di nuovo mentre affondiamo le forchette nel piatto dei rigatoni alla amatriciana, mica nei bachi sintetici commercializzati dalla Tyrell Corporation. E il guanciale è quello giusto.