
Cosa significa oggi essere liberi
Poche domande hanno avuto e continuano ad avere tanta centralità, nella storia del pensiero umano, quanto la seguente: che cosa è la libertà?
Malgrado ciò o forse proprio per questo, il concetto di libertà sembra avere una molteplicità di significati, tali da renderlo sfuggente, quasi incoglibile, come se l’idea stessa di libertà non possa essere ingabbiata entro i limitati confini di una definizione univoca. Non è un caso che la parola si trovi spesso unita a genitivi, atti a limitarne il campo di riferimento: libertà di parola, di pensiero, di religione, di espressione, libertà politica, economica, di mercato, e via dicendo. Ciascuno di questi modi particolari di intendere la libertà ha una storia a sé stante, fatta di battaglie, conquiste, rivoluzioni, consumatesi nelle sedi più varie: piazze, fabbriche, caffè e circoli letterari, riviste, università; come pure nei luoghi più impensati: arene dove si sono tenuti festival e concerti passati alla storia, ma anche in quiete stanze, ove l’irrequietezza di poeti e intellettuali è stata messa su carta a lume di candela, o addirittura nelle celle delle prigioni e dentro i manicomi.
La storia della libertà, o delle libertà, è fatta di infiniti percorsi più o meno intersecati tra di loro.
E i modi in cui ogni epoca storica ha “pensato” e “realizzato” le sue aspirazioni di libertà, sono intimamente legati a paure e speranze particolari, che spesso sono state persino in conflitto tra di loro.
Il modo di concepire la libertà della borghesia francese di fine Settecento è molto diverso da quello del ceto mercantile inglese di un secolo prima e ancor più da quello della classe operaia a cavallo tra Ottocento e Novecento. Tutti usano la parola libertà, ma ciascuno sembra intendere qualcosa di diverso con essa. Ora, chiamare con la stessa parola cose che, in realtà, sono molto diverse tra di loro implica dei rischi: primo fra tutti quello di non riuscire né a spiegarsi né tanto meno a capirsi. Sarà anche per questo motivo che, alla fine, si cerca spesso di risolvere il problema con formule magiche: la libertà di ciascuno finisce laddove comincia la libertà di un altro, si sente spesso dire. Sembrerebbe un bel modo di risolvere il problema, ma in realtà non è così, poiché, di fatto, non è chiaro dove e come vada tracciata la linea di confine che ci separa gli uni dagli altri.
Nel caso di un’emergenza, come può essere una pandemia, possiamo tollerare che lo Stato imponga delle pesanti limitazioni alla nostra libertà di movimento. Con il distanziamento sociale, il confine che separa le persone si fa più marcato, fino a diventare una vera e propria terra di nessuno: una mano tesa, in cerca di una stretta, può destare sospetti, non meno che l’incontro ravvicinato di uno sconosciuto, che tenga la mascherina abbassata. Improvvisamente ci sentiamo nel pieno diritto di chiedere a quel tale che si copra bocca e naso, come del resto prescrivono le leggi in materia di profilassi. Parimenti, non manca chi, in nome della libertà personale, si sente autorizzato a non rispettare le distanze imposte dai regolamenti emergenziali, o, in nome della libertà di pensiero, a ritenere che la pandemia non sia altro che un grande complotto, ordito e attuato da chissà quale élite, allo scopo di realizzare una nuova tecno-dittatura, in cui le forze vitali di ogni essere umano siano ingabbiate entro spazi sempre più angusti e oppressivi.

Di fronte a certi discorsi, che sono ormai all’ordine del giorno, si sarebbe tentati a dire che alla base vi sia anzitutto un problema di ignoranza. Ma si tratta di una conclusione azzardata e non esente da rischi. È azzardata perché, dati alla mano, l’odierno livello di istruzione medio è ben superiore a quello di altre epoche. D’altra parte, è pur vero che la società in cui viviamo è divenuta così complessa, che, malgrado l’elevato livello medio di istruzione, è sempre più difficile interpretare correttamente i fenomeni. Ne consegue che stabilire con chiarezza dove debba essere di volta in volta tracciata la linea di confine che separa la propria libertà da quella altrui, resta comunque un’impresa tutt’altro che facile. Per farlo, occorrono conoscenze specifiche e approfondite, le quali, va dato atto, sono alla portata di pochi. Ma ciò implica inconvenienti assai rischiosi. Per questa via, infatti, si finisce che in molti arrivino a sentirsi costretti e indebitamente limitati, da qualcosa che si configura come una sorta di nuova dittatura degli esperti. Visto e considerato poi, che anche gli esperti hanno i loro guai, primo fra tutti forse quello di essersi dotati di una visione troppo settoriale e specialistica della conoscenza, che spesso induce in errore, i “meno esperti” si sono fatti assai sospettosi, al punto di convincersi che le loro opinioni siano non meno fondate di quelle, appunto, degli esperti o presunti tali. Di questo passo, sembra proprio che la libertà di pensiero sia precipitata in un baratro di assoluto soggettivismo dell’opinione.
Per alcuni, rivendicare la propria libertà di pensiero equivale al diritto di poter affermare la propria opinione
anche quando sia sganciata da qualsiasi base scientifica, giacché, infondo, la stessa comunità scientifica non è altro che l’ennesimo gruppo di “esperti”, funzionali alla solita presunta dittatura che ci opprime.
Ciò non vuol dire che gli esperti abbiano ragione sempre e comunque, cedendo all’ingenua tesi secondo cui l’autorità del sapere scientifico sia del tutto esente da vizi o subdole deviazioni di fine. Eppure, quella che è stata giustappunto descritta, ovvero la tendenza al predominio dell’opinione soggettiva, è divenuta decisamente imperante nei dibattiti pubblici. La sua pervasiva diffusione è sintomatica di una profonda crisi epistemologica. Parola altisonante quest’ultima, che chiama in causa un’altra fondamentale domanda a cui servirebbe rispondere: che cosa è la conoscenza? Sarebbe troppo pretenzioso affrontare un simile problema in questa sede. Certo è che, mai, come nell’epoca attuale, conoscenza e libertà sono divenute così antitetiche tra di loro. Si potrebbe addirittura affermare che la libertà di pensiero, oggi, si configuri proprio come una istintuale rivendicazione della libertà dalla conoscenza: essere liberi equivale a essere liberi di poter pensare e dire anche senza conoscere. È una condizione del tutto nuova nella storia dell’umanità.
Come è stato precedentemente affermato, in ogni epoca vi sono state visioni alternative e talora pure conflittuali della libertà. Eppure, ciascuna di queste visioni aveva o ambiva ad avere una propria base conoscitiva: i liberali si rifacevano ai testi di Locke e di Stuart Mill; i giacobini ai testi di Rousseau e di molti autori radicali; i bolscevichi a quelli di Marx ed Engels; i sessantottini ai testi degli autori della Scuola di Francoforte. Tutti, a loro modo, hanno parlato di libertà e di certo non erano in accordo tra di loro. Ciascuno di essi ha lottato per idee diverse e molto spesso antitetiche. Ciò che però accomunava i loro atteggiamenti, era che tutti avevano un pantheon di autori di riferimento e, ancor più, le loro idee erano il frutto di una elaborazione filosofica e teoretica. Non rifiutavano la conoscenza, come accade oggi, ma, anzi, pur perseguendo interessi particolari, producevano conoscenza e lo facevano osservando la realtà e cercando di interpretarla con metodi e strumenti dotati di una loro scientificità. Si dovrebbe comunque affermare che, infondo, nessun metodo di analisi sia in grado di cogliere e abbracciare nella sua interezza la complessità della realtà. Ciò dovrebbe tuttavia renderci disponibili ad ascoltare il prossimo, ad approfondirne il punto di vista e a dubitare del proprio, non di certo autorizzarci a rinunciare all’approfondimento e a trovare rifugio nella soggettività.


