
Pensare liberamente o produrre e consumare pensiero: qual è la priorità nell’era del consumismo?
Qualche giorno fa, mentre bevevo il primo caffè del giorno e pescavo informazioni di varia natura dal feed di Facebook, puntualmente animato da pubblicità di prodotti per i quali avevo mostrato interesse, allibivo all’idea che tante risorse fossero impiegate per profilare non solo le preferenze espresse online, ma addirittura quelle manifestate offline, magari in conversazioni private.
Mi sono anche chiesta se gli algoritmi di Facebook, che ho immaginato come un nutrito esercito di Umpa Lumpa estremamente indaffarato a immagazzinare e lavorare i nostri dati, avessero facoltà di ascoltare i nostri pensieri, processarli e usarli “contro di noi”. Pur vivendo nella società dei consumi non siamo più investiti solo del ruolo di consumatori passivi, ma ci viene anche continuamente richiesto di partecipare attivamente alla vita pubblica attraverso una produzione. In questa dimensione, non più pensare, ma produrre pensiero diventa importante: produrre opinioni, commenti, esperienze, condivisioni ed esibizioni di vario genere, in un’ottica di profitto, allo scopo di guadagnare consensi virtuali o incarnare noi stessi pubblicità di beni di consumo, “influenzare” altri utenti con il peso immateriale della nostra presenza nello spazio social. Spesso viviamo in un ecosistema sociale in cui le nostre scelte sono guidate da cookies, algoritmi, bolle di filtraggio e in cui non veniamo raggiunti da notizie, idee, opinioni che sfidino il nostro sistema di pensiero e la nostra capacità critica.
Abbiamo il privilegio di essere compiaciuti in tutto e per tutto
se guardiamo un prodotto su un sito di e-commerce verremmo invitati a vedere “altri prodotti simili”, se manifestiamo interesse per alcune pagine sui social network o per determinati contenuti, nel nostro universo metareale circoleranno sempre le stesse informazioni, le stesse opinioni, gli stessi linguaggi; a illusoria conferma che abbiamo ragione, che siamo dalla parte giusta, che ciò che è diverso e lontano da noi è inconsistente. Le opinioni diverse dalle nostre vengono semplicemente fatte sparire dai nostri feed, desaparecidos dell’informazione, poiché, secondo i calcoli degli algoritmi, non sono gradite a casa nostra. E’ così che i nostri mondi individuali, ben lontani dall’incontrarsi nella dimensione sociale virtuale, si impoveriscono, i nostri pensieri si impigriscono e si uniformano a quelli meccanici di intelligenze artificiali.
Cosa ne è, allora, delle infinite possibilità di scelta che, ci dicono, sono a nostra disposizione?
Ho la fondata impressione che, nella maggior parte dei casi, se abbiamo disseminato in giro un buon numero di dati personali che possano essere rielaborati da un algoritmo, noi non scegliamo liberamente, non ci informiamo liberamente, piuttosto, acquistiamo conferme, e il prezzo che paghiamo è offrire su un piatto d’argento ai signori dell’Internet tutti gli elementi necessari per creare i bisogni che sentiremo di avere domani. E proprio a quei bisogni cederemo un porzione della nostra libertà. Il meccanismo è semplice: più bisogni soddisfiamo, più liberi siamo, più beni consumiamo e più siamo felici. La possibilità di consumare dà una certa misura di quanto siamo autonomi e liberi di godere di alcuni piaceri, ma questa libertà non si nutre di se stessa, bensì di oggetti da possedere o consensi da esibire. Veniamo invitati a godere sempre di più e quindi, esattamente come un’azienda, a massimizzare i nostri profitti – materiali o immateriali, come i like di Facebook o cuori di Instagram – perché questi alimentano la nostra soddisfazione personale.
La generazione dei millenials, in particolare, è stata forzatamente guidata a intraprendere la via dell’auto-imprenditorialità, siamo stati tutti in qualche modo spinti a considerarci un’azienda – poiché non molte aziende sarebbero state disposte a prenderci in considerazione come dipendenti. Ci è stato detto che abbiamo davanti a noi una vastissima gamma di possibilità per produrre valore – e il sottotesto qui è che se i profitti non ci sono, la colpa è esclusivamente nostra.
La valorizzazione del sé in questo sistema ideologico avviene attraverso la prestazione crescente, la performance perenne, la continua ricerca dell’opportunità giusta tra le tante disponibili, la mercificazione di se stessi come oggetti o prestazioni da vendere sul mercato. Scivoliamo inesorabilmente in una vertigine di libertà kierkegaardiana che alimenta angoscia e frustrazione. Kierkegaard era uno dei miei filosofi preferiti al liceo, già all’epoca lo trovavo al passo coi tempi, sicuramente un precursore delle angosce della mia generazione. Mi colpì della sua opera, in particolare, un passaggio sulla libertà di scelta:
«Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire: bisogna fare questo o quello; ma, se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità. Cosí anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha piú la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non l’ha fatto».
Forse è vero che il tempismo è tutto e oggi più che mai è necessario essere veloci nell’esprimere un desiderio, per ottenere qualcosa o compiere una scelta che ci corrisponda o da cui dipenda il destino della nostra nave. Ma se parliamo di libertà di pensiero e di espressione, affinché questa resti un valore, un diritto e non una merce di consumo o l’ennesima occasione di creare un prodotto da lanciare sul mercato delle opinioni, è invece fondamentale prendersi del tempo. Prendere il tempo che occorre per esprimere un concetto, generare una riflessione, sollevare una domanda, senza troppa fretta.
La nostra libertà è un terreno comune e dovrebbe crescere, allargarsi sempre di più, per contribuire a un’emancipazione profondamente umana da alcuni limiti che la nostra società e cultura ci impongono e che rendono arido quello stesso terreno.


