
La libertà non è un possesso ma una conquista
Tempo fa, in fila alla cassa di un supermercato, mi è capitato di seguire un discorso tra due ragazzi, uno dei quali stava per laurearsi. Diceva all’altro che i genitori per regalo gli avrebbero fatto un Audi A3. Essendo io stesso genitore, non ho resistito e tra il serio e il faceto sono intervenuto.
“I tuoi ti hanno fatto il regalo di poter studiare e ora pretendi pure la macchina?”, ho chiesto.
Il laureando è rimasto interdetto. Da come mi ha guardato avrebbe voluto forse prendermi a pugni. L’altro invece mi ha dato ragione, precisando che a lui, quando sarà, i genitori non faranno regali di laurea. Anche perché non potrebbero permetterselo.
La conversazione è continuata su toni scherzosi, ma pure impegnati. Ho abbracciato il più stucchevole paternalismo di cui fossi capace: così poco “figo” da trovarlo io stesso imbarazzante. In pratica ho suggerito al laureando di fare lui il più bel regalo a sé stesso e ai genitori, ossia di trovarsi un lavoro, con cui comprarsi la macchina, perché la soddisfazione che ne trarrà sarebbe molto più grande.
A questa curiosa vicenda ho ripensato in questi giorni, avendo appreso la notizia della ragazza cacciata di casa perché lesbica, e della sua Mercedes, acquistata con i soldi delle donazioni.
Si tratta di una ragazza di soli 22 anni, che certamente ha avuto il suo sovraccarico di problemi dalla vita. Nel suo caso, la solidarietà “sbrigativa” dei social sembra aver sopperito alle carenze del contesto famigliare. Il problema è però un altro: chi sopperisce alle carenze valoriali della società?
La rete potrà pure mobilitare catene di solidarietà. Resta il fatto che la ragazza cacciata di casa e il laureando di buona famiglia soffrono entrambi di un problema comune e affatto riconosciuto: l’idea imperante che la libertà sia un possesso e non una conquista.
Lungi da me però puntare il dito contro i ventenni di oggi, non troppo dissimili dai ventenni di pochi anni fa come me: a fatica e confusamente cercano di trovare spazio in un mondo profondamente sbilanciato. La mia generazione, di poco più anziana, è passata attraverso lo stesso tritacarne culturale/mediatico.
Non dubito che Malika abbia sofferto molto. L’esortazione che le faccio è quella di capire al più presto che per diventare donna non le sarà sufficiente possedere una Mercedes. (Probabilmente lo ha già capito). Semmai, le occorrerà cominciare a porsi una domanda fondamentale, eloquentemente suggerita, fra i tanti, dallo stesso Bob Dylan…
“How does it feel to be on your own,
with no direction home,
a complete UNKNOWN,
like a rolling stone?”
Occorre sottolineare volutamente la parola UNKNOWN, poiché sebbene la rete abbia contribuito a far conoscere a tutto il Paese il nome di Malika Chalhy, in realtà, delle sue sofferenze, di ciò che ha vissuto, di chi davvero ella sia, NESSUNO SA NIENTE, e se ieri, con tanta superficialità erano pronti tutti a versare una lacrima per lei, oggi viene messa al patibolo con altrettanto pressappochismo, non solo dai generici utenti indignati, ma anche da importanti o presunte tali personalità.


