Mi piace far canzoni e bere vino
Non chiedetemi perché (e non chiedetelo nemmeno a voi stessi), ma a me questi versi di Francesco Guccini danno un senso di libertà sterminata.
Perché sono un’immagine definita, un libero approccio al fare musica prima ancora di voler raccontare liberamente qualcosa, un’anarchica modalità creativa. Perché le parole, messe in musica, sono sensazioni, vanno al di là del loro significato; perché brillano di più, perché aprono scenari nuovi, oltre il loro stesso senso. Poi perché assetata è la voglia di libertà di chi scrive canzoni, di chi si muove in uno spazio limitato dalla metrica, ma comunque senza confini, di chi ha la facoltà di potersi autoproclamare arbitro di un proprio pensiero.
Quando parliamo di libertà, sia ben chiaro, non ci riferiamo soltanto all’ideologia: libertà è anche e soprattutto impegno, manifesto, sprone, affinché ciò che si canta non rimanga soltanto, appunto, una canzone.
La libertà è libertà, anche per chi ascolta, non solo per chi canta qualcosa.
Io scrivo canzoni mettendo in musica delle mie idee, delle mie sensazioni, ma amo pensare che queste stesse possano arrivare alla gente prendendo forme diverse, modellandosi al loro sentire interiore, non soltanto uditivo: la libertà è infatti anche poter recepire una canzone in modo differente rispetto a quanto ha provato sulla propria pelle chi l’ha scritta, darle un’interpretazione personale e un significato nuovo, perché le emozioni che una qualche forma d’arte può darci sono modellabili dalla nostra sensibilità e dal nostro stato d’animo in un determinato momento. Per tutti questi motivi faccio il cantautore e non il cantante. Perché non mi sentirei un uomo e un artista libero se dovessi cantare pensieri e parole non miei, non sentirei la necessità di stare su di un palco e comunicare qualcosa al mio pubblico, sarei probabilmente la bocca di qualcun’altro.
E pensare che fino a qualche tempo fa, nemmeno tanto lontano, esisteva la censura, la rigida negazione di quanto raccontato finora, la limitazione della libertà creativa. I motivi erano i più svariati, dipendenti sia dall’epoca che dai contesti socio-culturali, politici o inerenti al cosiddetto buoncostume: fu censurata “La Traviata”, il capolavoro verdiano, che, tratta da “La Signora delle Camelie”, vide spostarsi l’ambientazione dalla contemporaneità del 1850 al 1700; furono censurati i Beatles in “Come together” o in “Lucy in the sky with diamonds” per un presunto riferimento all’LSD; oppure, nel periodo fascista, un sacco di artisti italiani furono costretti a modificare le proprie opere perché non compiacenti al regime; o ancora Domenico Modugno, con la sua “Resta cu ‘mme”, accusato di troppo libertinaggio in relazione ai versi “nun me ‘mporta d’o passato / nun me ‘mporta ‘e chi t’ha avuto / resta cu ‘mme, cu’mme” fu costretto dalla commissione del Festival di Sanremo a modificarli in “nun me ‘mporta se ‘o passato / sulo lacrime m’ha dato / resta cu ‘mme, cu’mme”; censura esercitata anche ai danni di Pino Daniele nel 1979: il finale di “Je so’ pazzo”, “perché je so’ pazzo, je so’ pazzo / nu me scassate ‘o cazz” venne considerato inaccettabile e il cantante fu costretto a sostituire l’ultima parola con…un fischio! Sarebbero tantissimi insomma i casi da elencare, raccontare e deprecare.
Poi però penso. Penso a tanti rapper o trapper dei nostri giorni. Penso ad alcuni loro testi inneggianti alla violenza o esibizionisti di un benessere economico di cui, indubbiamente, all’arte non interessa una beata mazza. Penso semplicemente che ci vorrebbe un po’ più di buon senso, di responsabilità, cosa ben diversa dalla censura come concetto. Ma queste sono solo riflessioni personali che scrivo di getto, pensando a volume alto, giusto per rimanere in tema di libertà, in questo caso di opinione.
Ad ogni modo, la libertà di pensiero, nella musica, è sacrosanta, imprescindibile: basta solo renderla affine al fatto artistico.
L’uomo è un essere libero, l’artista è l’esaltazione dell’uomo, quindi anche della sua libertà di pensiero. Esaltiamola, difendiamola, conserviamola.